Immaginate di dover spiegare a un tredicenne che da domani non potrà più usare Instagram o TikTok. Non perché ha fatto qualcosa di sbagliato, ma perché la legge lo dice. La sua reazione? Probabilmente troverebbe il modo di aggirare il divieto in meno di cinque minuti.
Questo scenario, più concreto di quanto sembri, è al centro di un dibattito che sta infiammando il panorama politico e giuridico italiano: ha senso impedire per legge ai ragazzi sotto i 14 anni di accedere alle piattaforme social?
Il problema è reale (ma la soluzione non è scontata)
Partiamo dai fatti. I dati sulla salute mentale degli adolescenti sono preoccupanti: ansia, disturbi dell'immagine corporea, dipendenza da notifiche. Le piattaforme social, con i loro algoritmi progettati per massimizzare il tempo di permanenza, non sono esattamente ambienti neutri. Aggiungiamoci cyberbullismo, adescamento online, esposizione a contenuti violenti o inappropriati. Il quadro è chiaro: c'è un problema da affrontare.
La risposta istintiva? Vietare l'accesso ai più piccoli. Semplice, netto, apparentemente efficace. Ma la realtà normativa e tecnologica ci racconta una storia diversa.
Quello che già non funziona
Molti non lo sanno, ma il GDPR ha già introdotto una protezione: i minori di 14 anni non possono dare autonomamente il consenso al trattamento dei propri dati personali. Servirebbero i genitori. Sulla carta, perfetto. Nella pratica? Un fallimento.
Perché? Perché nessuno verifica davvero l'età. Basta dichiarare di essere nati nel 2005 invece che nel 2012 e il gioco è fatto. Le piattaforme si limitano a chiedere una data di nascita in fase di registrazione, senza alcun controllo. Il meccanismo di protezione esiste, ma è come una porta blindata lasciata aperta.
Proporre un divieto assoluto significa voler chiudere quella porta. Ma qui cominciano i problemi veri.
I nodi costituzionali (che non possiamo ignorare)
Il nostro sistema giuridico si fonda su alcuni pilastri ineludibili. La libertà di manifestazione del pensiero, sancita dall'articolo 21 della Costituzione, non distingue tra maggiorenni e minorenni. I social network sono strumenti di comunicazione, spazi dove si esercita questa libertà. Impedirne categoricamente l'accesso a un'intera fascia d'età solleva interrogativi costituzionali rilevanti.
C'è poi il principio di proporzionalità: ogni limitazione a un diritto fondamentale deve essere strettamente necessaria e proporzionata all'obiettivo. Un divieto totale, che non distingue situazioni, contesti o livelli di maturità individuali, appare difficilmente giustificabile. È come usare un martello pneumatico per appendere un quadro.
La Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia ci ricorda inoltre che i minori hanno una capacità progressiva di autodeterminazione. A 13 anni un ragazzo può esprimere opinioni sulla propria salute, sulle scelte religiose, sulla vita familiare. Negargli totalmente l'accesso agli spazi digitali dove si svolge buona parte della socialità contemporanea sembra contraddire questo principio.
E qui arriviamo a un punto delicato: chi decide cosa è meglio per un ragazzino? Lo Stato o i suoi genitori? Un divieto generalizzato sottrae alle famiglie la possibilità di modulare l'educazione digitale dei figli secondo le specificità di ciascuno.
Il labirinto tecnologico
Anche volendo superare gli ostacoli giuridici, restano quelli pratici. Come si verifica l'età online in modo affidabile?
Le opzioni sul tavolo sono poche e tutte problematiche. Richiedere l'upload di documenti d'identità? Parliamo di dati sensibilissimi che andrebbero gestiti, archiviati, protetti. Il rischio privacy è enorme. Riconoscimento facciale o biometrico? Ancora più invasivo, con costi tecnici proibitivi per molte piattaforme.
E poi c'è il fatto che Internet non ha confini. Una legge nazionale ha senso solo se coordinata a livello almeno europeo. Altrimenti? I ragazzi userebbero VPN, account esteri, escamotage di ogni tipo. Con un effetto paradossale: invece di proteggerli, li spingeremmo verso zone ancora meno regolamentate del web.
La vera soluzione (quella scomoda)
Ecco la verità che nessuno vuole sentire: non esiste una bacchetta magica normativa. Il diritto può stabilire regole, sanzionare comportamenti scorretti, imporre standard. Ma non può sostituirsi all'educazione.
Serve un cambio di paradigma. Investire massicciamente nell'alfabetizzazione digitale, a partire dalle scuole primarie. Insegnare ai ragazzi a riconoscere le dinamiche tossiche dei social, a gestire la propria identità online, a proteggere la privacy. Formare i genitori, perché molti adulti navigano il digitale con ancor meno competenze dei loro figli.
Le piattaforme devono fare la loro parte: design più etico, algoritmi meno predatori, trasparenza sui meccanismi di raccomandazione. E controlli veri sull'età, non finzioni burocratiche.
Serve un ecosistema di protezione integrato: norme ragionevoli, tecnologie rispettose, cultura digitale diffusa.
Conclusione: proteggere senza isolare
La tentazione del divieto totale è comprensibile. Di fronte a una generazione che sembra perdersi negli schermi, l'impulso di tirare il freno a mano è umano. Ma una regolamentazione che ignora i vincoli costituzionali, sottovaluta le sfide tecniche e nega la graduale autonomia dei giovani rischia di produrre più danni che benefici.
I minori non hanno bisogno di muri digitali, ma di guide. Non di isolamento, ma di accompagnamento critico. La sfida vera è questa: costruire un ambiente digitale dove possano crescere, imparare, socializzare in sicurezza. Servono regole intelligenti, non divieti assoluti.
Perché nel 2025, escludere un tredicenne dal mondo digitale non significa proteggerlo. Significa lasciarlo impreparato al mondo che lo aspetta.
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